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Come la sabbia del deserto di Vincenzo Maria Sacco

Recensione di Renato Campinoti

Quando la letteratura si fa storia e incanta il lettore

Imperdibile questo bellissimo libro di Vincenzo Sacco, per tutti, tanto più per quelli (e siamo schiere sempre più numerose) che affidano all’archeologia una funzione essenziale per la ricerca delle nostre radici. Sia chiaro, si tratta di letteratura e della migliore, per la chiarezza della scrittura, per il ritmo con cui riesce a tenere attento e implicato il lettore nelle vicende che vengono narrate. Eppure, come succede talvolta, la letteratura che Vincenzo ci elargisce, va ad incontrare una vicenda che si intreccia con una potenziale novità ( e che novità!) nella ricerca archeologica in quella zona, la valle del Cedron, dove venivano scavate nella roccia le tombe di quegli ebrei che, dalla diaspora, facevano ritorno nei pressi della città santa, Gerusalemme, alle pendici della quale si trova, appunto, la valle. 

Tutto accade nell’inverno del 1941, quando durante gli scavi condotti dall’archeologo ebreo Eleazar Lipa Sukenik, coadiuvato dal suo assistente Nahaman Avigad, viene alla luce una tomba inviolata apparentemente di poca importanza. Poi, con un’osservazione più attenta, i due archeologi si rendono conto di aver trovato, con ogni probabilità, la tomba di famiglia di Simone di Cirene, quello che i Romani costrinsero a portare il patibulum di Gesù sulla collina dove verrà crocifisso. 

A questo punto del romanzo, Vincenzo Sacco porta avanti la narrazione di due storie parallele, ma distanti l’una dall’altra due millenni. L’una, quella affascinante, di Simone di Cirene che, colpito dall’esperienza che è costretto a vivere, non riesce né ad abbracciare la nuova religione che Gesù ha portato sulla terra, né a liberarsi tuttavia, dal turbamento che quell’esperienza, quello sguardo di Gesù, hanno lasciato come qualcosa di indelebile nell’animo suo. Molto belle e anche dolcissime, le parti nelle quali si confrontano Simone con i suoi tormenti, il figlio Alexandros, che ne segue le orme anche nella comunità ebraica, la moglie Rachel e il figlio Rufus che aderiscono convintamente al cristianesimo. 

Lascio al lettore, ovviamente, la scoperta delle sequenze che portano, nella narrazione di Sacco, al progressivo riempimento della tomba della famiglia di Simone e alle deduzioni che ne conseguono, da parte dei due archeologi, per darne una identificazione possibile. Così come appaiono di grande interesse e impatto emotivo le parti che ci ricordano la vera e propria strage degli ebrei che i Romani finirono per fare in quegli anni perché a nessuno era concesso ribellarsi alla legge della “città invincibile”: “Simone era venuto in quelle terre dalla lontana Cirenaica. A Gerusalemme… aveva creduto di poter vivere e lasciare ai figli la sua eredità fatta di poche cose e di molte convinzioni. Tutto, ormai, sembrava perduto. Gridò al cielo il suo dolore, ma nessuno gli rispose. Il suo Dio, quello in cui aveva creduto, non era lì. Come avrebbe potuto, altrimenti, permettere lo sterminio del suo popolo?” . 

Tra l’altro, a causa di questa distruzione, la tomba finisce per rimanere occultata per secoli. Solo una ricognizione attenta dei reperti può portare ad una sua identificazione. Qui emerge anche quello spirito da giallista che pure l’autore ha ben frequentato in altri interessanti romanzi. A fianco di questa antica e affascinante storia, si snoda la vicenda dei due archeologi, di grande stima reciproca, separati solo dall’essere l’uno, Sukenik, il capo indiscusso, profondamente ateo, mentre l’altro pratica convintamente la religione ebraica. Di grande presa sul lettore il riverbero di queste opposte convinzioni relativamente all’atteggiamento da tenere rispetto alla scoperta fatta, in un momento, il 1941 appunto, in cui soffiano impetuosamente venti di antisemitismo in tutta Europa, a cominciare da quella belva nazista che ha già dato inizio alla Shoa. 

Naturalmente l’autore non prende posizione per l’una o l’altra delle ipotesi che vengono discusse tra i due archeologi sulle modalità di impattare una simile situazione con la loro scoperta. Quasi drammatica la discussione tra i due, proprio perché incastonata in un terribile momento dell’umanità. “Sukenik pensò alla follia hitleriana che nessuno aveva saputo o voluto fermare. Pensò alla sua terra dilaniata dagli odi religiosi e governata da un paese straniero, l’Inghilterra…Intanto gli sbarchi di Ebrei che fuggivano dalle persecuzioni in Europa continuavano  senza sosta e migliaia di disperati… arrivavano sulle coste palestinesi.” . È in questo contesto che si sviluppa il confronto fra i due archeologi.  “È un ritrovamento troppo importante e noi siamo in una situazione troppo complicata e pericolosa”, argomenta Sukenik. “Mi rendo conto…ma lei ci ha sempre insegnato che, nel nostro mestiere, la verità deve prevalere su tutto”, controbatte Nahman. Alla fine, verrà trovato un compromesso e il libro va verso un interessante epilogo. Ma attenzione! Vincenzo Sacco non si accontenta di tutto ciò e regala al lettore un’appendice al romanzo che ne valorizza ancora di più, se possibile, le ragioni per cui merita di essere letto e apprezzato.

Renato Campinoti, gennaio 2023

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