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Il mio nome

In un mondo frenetico dove sembra vincere il freddo dell'indifferenza, chiamarsi per nome è una piccola, ma potente forma di connessione umana. 
L’empatia e la gentilezza non sono solo parole vuote.
L’autore dell’articolo, che vi proponiamo, riesce a intrecciarle nella trama della vita quotidiana della quale sono l’essenza stessa.

«Signora, entri pure se vuole. Desidera qualche informazione?»

La signora, che attendeva il suo turno per accedere a un altro studio medico attiguo, fece capolino nel mio, approfittando della porta d’accesso lasciata semiaperta dal paziente precedente.

«No grazie, mi scusi, ho guardato per semplice curiosità».

Era una bella donna sui trentacinque/quaranta anni, mora, bella faccia, occhi scuri, folti capelli neri.

Mi alzai dalla scrivania e le andai incontro. La signora, allora, entrò nello studio e ci presentammo.

«Sono il dottor Roberto Mariotti, e lei come si chiama?»
«Stefania».
«Davvero si chiama Stefania? lo sa che io adoro da sempre questo nome femminile. Mi piace per la sua musicalità e mi sembra adatto per una bella donna».

Anche lei, successivamente mi confidò che, sin da piccola, sognava di sposare un medico.

Facemmo amicizia e per un po’ ci frequentammo appellandoci, educatamente, come dottor Mariotti e signora Stefania. Ben presto, però, io iniziai a sognare che lei mi chiamasse semplicemente Roberto e io, chiamassi lei, confidenzialmente Stefania.

Questo momento giunse anche nella realtà: cominciammo a chiamarci Roberto e Stefania senza appellativi e continuammo a farlo, felicemente conviventi, per circa i successivi trent’ anni.

A me piace molto essere chiamato con il mio nome, Roberto. Conoscersi per nome facilita le relazioni umane. Non è detto che si arrivi ogni volta alla nascita di una vera amicizia, ma spesso è il primo passo per generarla.

Cerco, tutte le volte che se ne presenta l’occasione, di seminare il mio nome nella memoria delle persone con cui provo istintivamente una certa affinità.

Conservo una certa facilità d’approccio alle persone, anche per abitudine professionale. Il rapporto semplice e diretto, con soggetti estranei, aiuta a stabilire con immediatezza un rapporto di cordialità che facilita quello successivo di confidenza e magari anche di amicizia.

Alcuni casi di esempio.

Con Ale, il ragazzino di colore – meno di vent’anni, denti bianchissimi sulla faccia nerissima – che staziona davanti a una panetteria di una via del centro per raccogliere, senza dover chiedere, qualche soldino, una mattina ci siamo trovati faccia a faccia. 

Lui mi ha sorriso con i suoi bellissimi denti e io ho tirato fuori dalla tasca una manciata di monetine. Sul palmo dell’altra mano le ho divise in due parti e ce le siamo spartite. Metà io e metà lui; da quel momento Africa e Italia sono diventate vicinissime e Ale ha anche inventato un gioco bellissimo. Quando – quasi quotidianamente – passo di lì, lui alza una gamba a mò di sbarramento, io gli do un euro, la gamba si abbassa e io posso passare. Con un bel sorriso ci salutiamo. – Ciao Ale! Ciao Roberto! 

Anche con Jessica, che vende in un negozio lì accanto, capsule e macchinette per il caffè, si è creato un bel rapporto. Faccio acquisti da lei da molti anni. Una volta che era in confusione perché non sapeva come gestire la dieta prescritta da una dietista, cercai di tranquillizzarla dandole alcuni consigli. Nel salutarla le ho detto: «Ciao, sono un medico, ma puoi chiamarmi semplicemente Roberto».
Da allora, con sincera simpatia reciproca, ci salutiamo: Ciao Jessica, ciao Roberto!

Un altro esempio di questa mia consuetudine: tempo fa ho acquistato della frutta in un mercato ortofrutticolo della città, al banco gestito da una ragazza del Bangladesh, vestita con il costume tipico, simpatica, spigliata e aperta. Al momento di pagare le ho detto: «Sei simpatica, è carino comprare da te! Come ti chiami?»
«Santa», mi ha risposto e subito dopo, lei lo ha chiesto a me.
«Roberto!», le ho risposto.

Vado di rado a questo mercato, ma le poche volte che ci torno, Santa appena mi vede, anche se da lontano, mi saluta agitando una mano e con un sonoro e piacevole – Ciao Roberto!

Nel piccolo, ma ben fornito e molto frequentato market di quartiere che frequento si è creato, da tempo, un simpatico rapporto confidenziale con il giovane direttore delle vendite, Alessandro che si fa chiamare Ale.

Si è generata, spontaneamente, una piacevole cordialità fra noi e quando lo incontro, anche se è sempre molto indaffarato, mi saluta per primo. – Ciao Roberto! Ciao Ale!

A volte, se c’è tempo, ci scambiamo qualche parola e se manca dallo scaffale un prodotto che sto cercando, lui si prodiga subito a cercarlo nel magazzino per fornirmelo. Sono molto gratificato da questo rapporto di amichevole confidenza che, mi pare, sia poco condiviso dagli altri frequentatori del market. – Ciao Ale! Ciao Roberto! –

Nello stesso market, da tempo,scambio cordialmente un saluto anche con la commessa Francesca. É una ragazzona con la faccia vispa, attenta, simpatica, dotata di un sorriso aperto e sincero. Da quando un giorno le feci un’osservazione spiritosa, mentre sistemava gli articoli su uno scaffale, abbiamo fatto conoscenza dandoci del tu. Da allora, anche se è occupatissima dietro il banco della gastronomia, se mi vede passare, mi lancia il suo saluto da lontano. – Roberto ciao! – Agitando anche la mano.

«Ciao Francesca!»

Uscendo dal market, passo obbligatoriamente davanti a una panetteria. Un giorno, sono entrato per acquistare una baguette. L’ho chiesta alla giovane titolare. Lei l’ha presa, l’ha pesata, l’ha incartata, mi ha comunicato il prezzo e me l’ha consegnata.

Aspettandosi un’altra richiesta, mi ha fatto la domanda d’obbligo – E poi? – E poi me ne vado! Ho risposto io – 

Lei ha riso dell’inaspettata risposta, abbiamo riso insieme e fatto quattro chiacchiere.

Non c’erano altri acquirenti, la ragazza si è mostrata estroversa, semplice e simpatica per cui, uscendo gliel’ho detto e nel salutarla le ho detto anche. – Io mi chiamo Roberto. – E lei sorridendo, di rimando – E io Roberta! 

Abbiamo riso ancora allegramente e da allora, quando passo davanti alla panetteria, entro e la saluto. – Ciao Roberta, Ciao Roberto!

Ci sarebbero altri episodi, ma preferisco fermarmi qui.

É vanità la mia? É narcisismo? A mio parere no. Si tratta invece del bisogno legittimo di sentirsi integrati in una comunità, fuori se possibile, dall’anonimato prevalente. Essere riconosciuti e chiamati con il proprio nome facilita, oltretutto come detto, i rapporti sociali.

Dovrei allora sentirmi appagato, il mio nome non è ignoto, è frequentemente pronunciato, in varie occasioni, da varie persone a partire da quella dolcissima prima volta di trent’anni fa da Stefania, quando abbandonò il dottor Mariotti per chiamarmi finalmente e per sempre con il mio nome, Roberto.

Ma Stefania ora, a seguito della patologia che ha colpito il suo cervello, presenta grave deficit motorio e cognitivo. Non cammina, non ha movimenti attivi e, da più di un anno è anche afasica. É immobile in un letto e non parla più, non pronuncia più i nomi delle persone e tanto meno il mio che è quello che vorrei sentire, più di tutti, da lei. Saltuariamente è stata capace di dire un buongiorno o una buonanotte, ma con molto sforzo e con una voce strana tipo quella di ET nel film omonimo – t-e-l-e-f-o-n-o c-a-s-a –

All’inizio ho sofferto, non poco, a non sentirmi chiamare con il mio nome da lei, che era abituata a pronunciarlo al mattino appena sveglia. Poi sono ricorso a un trucchetto mentale. Mi sono detto, se avessi un pesciolino rosso in una vaschetta, pretenderei che mi chiamasse Roberto ogni volta che gli cambio l’acqua o gli do da mangiare? 

Stefania non è, ovviamente, un pesciolino rosso, ma ha le stesse necessità. Deve essere accudita e questo è un dovere visto che è totalmente non autosufficiente.

Non devo pretendere che mi chiami per nome ogni volta che mi avvicino a lei o la curo. Questo espediente funziona ancora e con lei il problema non si pone quasi più.

Ma una notte, quando nell’oscurità della camera affrontiamo, mano nella mano come da sempre, le ore del sonno notturno, non ho resistito e le ho sussurrato con tono di voce invitante e dolce: «Ti ricordi che mi chiamo Roberto? – Purtroppo, come al solito, nessuna risposta. Rassegnato le ho dato un bacio e le ho detto piano.
«Non importa amore che tu non sappia dire il mio nome, l’importante è che io ti voglio bene». Al che, come provenisse da una lontananza misteriosa o dalle inesplicabili vie del cuore, con la voce di ET, inaspettatamente mi ha risposto: «A-n-c-h-i-o».

Roberto Mariotti

La copertina è un adattamento grafico di un’immagine di Bingodesigns (pixabay)

L’immagine in calce ci è stata fornita da Fabio Canessa


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Un commento

  1. Grazia Grazia

    Bellissimo racconto che mi riporta a quando accoglievo le persone nel mio ambulatorio di medicina generale e chiedevo il loro nome : Rashida, Rosaria, Annagrazia, Hamida, Marco … ad ogni nome mi appare quella persona, il sorriso, la postura, il modo di relazionarsi con me.
    Grazie Roberto
    Grazia

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