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La luce della memoria

La foto di copertina è una modifica generata da una foto di Goran Backman su Unsplash

Per commemorare il giorno della memoria, la redazione ha scelto di proporre la lettura di alcuni estratti dal racconto Le guerre perse  inserito nel libro Terre di Tufo  di Manolia Gregori (Ala LIBRI 2023).
La voce narrante qui testimonia di come la guerra, la sopraffazione, il dominio siano portatori di dolore e di morte e che in nessun caso ci saranno vincitori. Tutte le guerre sono destinate a essere perse. 

Lido stava attento, non voleva che gli capitasse di saltare per aria e aveva capito che doveva spegnere la luce della memoria, mentre era al lavoro, anche se proprio di lavoro non si poteva parlare.
Ma quella puttana vigliacca gli si accostava a tradimento, mentre dormiva e lo riportava a casa sua, al camino, al profumo delle castagne e delle chiacchiere della veglia.
Certe volte il sogno era così reale, che si svegliava al rumore dei suoi denti che macinavano a vuoto e spesso si trovava il viso bagnato di lacrime rabbiose.
Di fame si moriva, si moriva con facilità e spesso, e la cosa curiosa era che si stava male solo all’inizio, dopo, quasi non ci si accorgeva neanche. Forse c’era una spina anche per quello, come per la memoria.

La morte era la condizione normale nel campo, la vita un’eccezione capricciosa e volubile.
Ogni tanto Lido si sentiva sulla testa il ronzio rabbioso degli aeroplani che andavano a regalare la morte ai crucchi, ma non riusciva a trovarci né soddisfazione né speranza.
Quegli uccelli grigio argento non avevano l’olivo nel becco, ma altra rabbia e altri occhi biechi e invasati.
Anche i kapò li guardavano passare e diventavano sempre più bestie ora che cominciavano ad avere, non più la paura, ma la certezza che la guerra per loro era persa.
Gli ricordavano la scena di un film che aveva visto a Roma in un pidocchietto per soldati: Sansone che muore con tutti i Filistei, forse sarebbe andata così, ma poteva saperlo?
Per la seconda volta aspettavano la primavera fredda della Germania che gli pareva quasi una stagione diversa.
Lì voleva dire acqua e fango all’infinito e non fiori, uccelli, api ed erba e odore di buono come a casa sua, era un altro tempo, snaturato e senza il riconoscimento rassicurante di prima.
E quando vedeva le prime margherite o i soffioni o i pisciacani, gli parevano assurdi, incongrui, falsi, perché nei suoi campi il grano era già alto e già piegava la testa con le sue spighe fini e verdi e l’orzo e il fieno gli toccavano le ginocchia.
Lì la roba non veniva allo stesso modo, anche se la terra era buona e scura. Lì mancava il sole e il freddo non finiva mai. C’erano campi interi di rape, grosse come poponi e insipide e distese di patate dappertutto.

Quando toccava la doccia e si vedevano nudi uno con l’altro era una sinfonia di costole, di anche e di scapole sporgenti, come roste di legno in un sacco tutto grinze. Le gambe e le braccia erano bastoni e la testa era enorme su quel collo striminzito da gallina.
Nei visi si vedevano solo occhi e denti e mascelle troppo grandi e le occhiaie erano nere e viola e arrivavano alla barba.
I capelli erano radi o cadevano proprio, risparmiando la fatica ai barbieri che li rapavano una volta al mese.
Nudi e aspettando l’acqua, si guardavano uno con l’altro e si rendevano conto di come erano ridotti, come se non si fossero guardati ogni giorno le braccia, le gambe, il torace da tisici.

Non si accorse dei cambiamenti, neanche capì che la guerra era finita e fu così che lo trovarono gli americani, quando liberarono il campo a primavera inoltrata.
Molti musulmani morirono ugualmente, anche dopo le razioni, anche dopo le cure e il riposo, ma lui no, si aggrappò a questo regalo inaspettato e imprevisto che si chiamava vita; la sua mente torturata riuscì ad afferrarsi al filo della memoria e lasciò con gratitudine, che i nuovi arrivati lo curassero, lo pesassero e lo nutrissero come un neonato deforme, mettendo da parte ogni giorno un po’ di fiato e qualche grammo come una formica.
Dopo due o tre cucchiai di minestra il suo stomaco si chiudeva come un riccio preso a calci e i muscoli urlavano torturati lamentandosi di non avere avuto quasi nulla per tanto tempo. Anche l’acqua faceva male, sembrava solida, eppure all’inizio ne aveva bevuta fino a scoppiare, quando non c’era altro per riempirsi la pancia e la pancia non esisteva proprio più, c’erano solo pieghe molli come un vestito prestato da uno grande e grosso a un piccoletto.
Un carnevale, ma nessuno ci rideva.

Manolia Gregori

Copertina terre di tufo


Published inBlog

2 Comments

  1. Vincenzo SAcco Vincenzo SAcco

    Per il ricordo le parole non bastano mai. Se, poi, sono profonde e toccanti allora vien voglia di gridarle al mondo, a questo mondo.
    Brava Manolia

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