Presto avrei frequentato la prima elementare. Non potevo perdere preziosi giorni di scuola a causa di due stupide tonsille che mi tenevano spesso a letto, con febbre e mal di gola. Andavano tolte.
E la scuola, negli anni Cinquanta, era una cosa da prendere sul serio. Non esistevano settimane bianche, né settimane corte, né altre vacanze non autorizzate.
Così mi vestirono a festa, per la fotografia: scarpe a bambolina, di pelle lucida nera, vestitino elegante e capelli raccolti in due graziose treccine chiuse, alla base, da fiocchi colorati.
Che c’entra la fotografia? Proprio un bel niente! Ma questo è quanto mi dissero i miei genitori, quando mi portarono nell’ambulatorio di un famoso medico che, invece di un servizio fotografico, mi avrebbe tolto le tonsille. A tradimento.
Io non ci volevo andare, non ero molto convinta, c’era qualcosa che non mi tornava. Tutti quegli strani preparativi, tutto quel nervosismo. Le foto, poi, me le faceva sempre il mio babbo! Ero piccola, ma mica scema. Però, anche se titubante, mi avviai, per mano ai miei, verso il falso studio fotografico.
Già, la sala d’attesa, non sembrava proprio quella di un fotografo: tutta quella gente, tutti quei bambini, quell’atmosfera inquietante, in una stanza spoglia, poco accogliente, anzi, minacciosa.
Così, quando fu il mio turno, entrai, non in un posto colorato ed allegro, con obiettivi e macchine fotografiche, ma in un gelido ambiente dove predominavano il bianco e il grigio dell’acciaio. Mi venne incontro una signora che aveva tutto l’aspetto di un’infermiera; indossava un camice bianco e, sorridendo, mi fece accomodare su una grande poltrona. Subito mi bloccò braccia e gambe e, sempre col sorriso sulle labbra, mi chiese di aprire la bocca. Con una velocità supersonica ci infilò dentro, a tradimento, uno strano strumento che mi bloccava le mandibole impedendomi di chiuderle. Poi mi spruzzò in gola qualcosa. Col senno del poi, sicuramente, l’anestetico. Infine, mi si parò davanti un omaccione in bianco che introdusse rapidamente, nella mia gola un altro ferro mostruoso e, altrettanto rapidamente lo estrasse. Era tutto finito. Le mie mandibole furono liberate ed io cominciai a sputare saliva e sangue in una bacinella a forma di fagiolo gigante che Miss Sorriso teneva davanti a me. La visione di quella bacinella rivoltante mi perseguita ancora a distanza di tanti anni. Infine, come ciliegina sulla torta, l’infermiera mostrò a mia madre, su un vassoietto, sempre rigorosamente in acciaio, le mie ex orribili tonsille. Giacevano lì, inerti e schifosissime, molli e flaccide, ormai innocue. Avevamo fatto bene a fare l’intervento perché, dall’aspetto, diceva l’omaccione in bianco, erano proprio brutte, assolutamente da togliere. Ci furono i saluti, e l’infermiera, sempre col suo immancabile, grande sorriso, mi disse che adesso avrei potuto mangiare quanti gelati volevo perché il freddo avrebbe dato sollievo alla mia gola ferita e, presto, tutto sarebbe tornato a posto.
Non mangiai gelati invece, perché il loro sapore, che si mescolava a quello del sangue, mi faceva schifo. Era disgustoso. Provavo sollievo solo con cubetti di ghiaccio. Solo con quelli. Niente gelato. Il massimo della sfortuna!
Una sola consolazione: i miei genitori, come a titolo di risarcimento, per il brutto tiro che mi avevano giocato con la storiella della fotografia, mi regalarono quella graziosa bambola che avevo visto nella vetrina di un negozio della città e che mi piaceva tanto. Pensavo che non avrei mai potuto averla, perché sembrava molto costosa. Era così carina! Una faccina sorridente, occhi azzurri, capelli biondi raccolti in una elegante acconciatura; gonnellina scozzese e scarpette bianche décolleté. Infine, il tocco da maestro, quello che la rendeva tanto desiderabile: uno squisito montgomery rosso col cappuccio in tinta, chiuso da degli alamari in legno e rifiniture in turchese. Un po’ signorina raffinata, un po’ cappuccetto rosso.
Quella bambolina sembrava uscita da una fiaba e ne sprigionava tutta la magia.
Fui felice del dono, anche se ogni volta che la prendevo, o semplicemente, la guardavo, mi suscitava il ricordo di un brutto momento della mia vita. Così non ci ho giocato molto. Un po’ per questo, un po’ perché avevo paura che si “sciupasse”. Era così bella, così preziosa, sarebbe stato un vero peccato!
Mi metteva quasi soggezione.
Questa bambolina ce l’ho ancora, a differenza di tutte le mille altre, che, nel corso del tempo, sono andate perdute. L’unica sopravvissuta, anche al mio Gigino, l’orsetto del cuore che ho smarrito, con immenso rammarico, di recente, nell’ultimo trasloco. Lei no. Lei è ancora qui. Porta i segni del tempo: un po’ di polvere, i colori degli abiti meno vivi, le scarpette décolleté non più bianche, ma leggermente ingiallite. Però è sempre in ottimo stato, e il suo montgomery rosso ha ancora tutta la magia delle fiabe.

Anna Maria Vannini
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