Il romanzo, per essere tale, deve avere un ampio respiro, quel respiro che si trova nei romanzi dell’Ottocento e, in parte, del Novecento.
Dato però che di romanzi si tratta e non di fiabe, c’è comunque il problema del finale che, perfino in presenza di sapienti intrecci come quello de “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, può risultare deludente come se una marcia trionfale si risolvesse in una incerta passeggiata in una pianura nebbiosa.
«C’est la vie» viene da dire. La vita, anche nella sua banalità. Il grande amore tra Edmondo e Mercèdes non si riallaccerà e il conte, come molti uomini alle soglie dei quaranta, sceglierà inevitabilmente una donna più giovane, Haydée, un po’ principessa e un po’ schiava, per giunta. In omaggio al patriarcato.
Molto spesso, l’esito del grande romanzo è la morte dei protagonisti, come nella vita reale. Penso, per scegliere un esempio illustre, a “La montagna incantata” di Thomas Mann, dove è narrata una grande esperienza di formazione alla vita, ai sottili meccanismi dell’amore e della malattia, a come essi incidono sul corpo e sulla psiche, alla comprensione della bellezza e del significato filosofico dell’esistenza, una vita scandita dai ritmi rassicuranti della quotidianità e illuminata dalla grandiosità dei paesaggi alpini coperti di neve. Il tutto finisce rapidamente nello squallore mortale delle trincee della Prima Guerra Mondiale in una pozza di fango e di sangue.
Una morte in certo modo annunciata in tutto il lungo romanzo, ma lasciata intravedere in una visione sublimata, in un dialogo stretto tra amore morte, in cui la vita veniva celebrata e resa preziosa quanto più sfiorava i riti della morte e perfino dell’agonia, alternando le feste e il lusso con le lunghe ore di terapia, e sostituendo i dialoghi futili con i lunghi dibattiti sul senso dell’esistere. Che, all’improvviso, si rivela in tutta la sua brutalità e non senso.
In rari casi, nel romanzo classico, ci troviamo di fronte a un finale a sorpresa, una specie di “lieto fine” rappresentato da una conversione o una resurrezione, come in Dostoevskij o Tolstoj.
Penso sopratutto a “Delitto e castigo” di Dostoevskij, dove tutta la potenza di quello straordinario capolavoro si risolve, è vero, ma anche in qualche modo si disperde e si polverizza nel finale edificante, sulla strada che conduce il protagonista Raskolnikov ai lavori forzati in Siberia, felice della sua sorte e dell’espiazione del delitto commesso e faticosamente confessato.
Mi viene da dire che sarebbe preferibile che non ci fosse bisogno di un finale, nel romanzo come nella vita, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano…
Molti spunti interessanti. Concordo col fatto che la fine di in libro così cone di un film ha sempre un ruolo centrale