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Quella mattina gli alunni della classe media IB erano tutti in fermento. Aspettavano con ansia il testo del compito di matematica poiché era l’ultimo test del primo trimestre. L’insegnante li aveva già avvertiti che avrebbero dovuto ricordare tutte le cose fatte fino allora e chiaramente la tensione si tagliava a fette. Per tutti, tranne che per Raffaele Di Franco che sedeva compostamente al suo banco e guardava assorto un punto alla sua destra che si trovava al secondo banco, uno davanti al suo. La coda di cavallo di Lucia era elettrizzata perché la proprietaria si muoveva velocemente ora a destra o a sinistra ma mai indietro. Lui era come ipnotizzato dal gioco di luce che il sole faceva su quei capelli castano chiaro. Ora sembravano biondi e subito dopo un po’ più scuri. Non lo sapeva nemmeno lui quello che gli stava succedendo, stava bene solo quando la vedeva ma improvvisamente la lingua gli si attaccava al palato e lui non riusciva a dire una parola. Luca gli dette una gomitata: «Oh ma ti sei rimbambito? Guarda che la Prof. sta per darci il compito. Ricordati che lo devi passare a me e io poi lo passo a Marco. Hai capito?». Lui si girò e con un cenno del capo assentì. Si aveva capito. Ma gli altri lo capivano?

Gli capitava di stare delle ore in camera sdraiato sul letto con gli occhi fissi al soffitto. Non parlava. La mamma ogni tanto entrava e provava a scuoterlo. Allora si alzava e fingeva di mettersi al tavolino a studiare. Il giorno dopo a scuola andava senza aver fatto nulla ma, essendo uno scolaro abbastanza intelligente, riusciva sempre a recuperare all’ultimo.  Fino a due mesi prima lui non l’avrebbe nemmeno guardata Lucia. Era una delle tante femmine insopportabili della sua classe che rideva in maniera isterica con le compagne, soprattutto quando all’intervallo camminavano per il corridoio guardando con aria di commiserazione i maschi della classe. C’era un tacito accordo, però, fra lui e Lucia; si aiutavano, lui le passava gli esercizi di matematica e lei quelli d’inglese. Facevano così sin dalle elementari. Lei era sempre vestita con jeans e dei maglioni che le potevano fare da vestito e lui la percepiva come uno dei suoi amici.

Ma il giorno prima delle vacanze di Natale lei era arrivata in classe pettinata, i capelli raccolti in una magnifica coda , i soliti jeans ma sopra portava un maglioncino rosso attillato e Raffaele s’era accorto che ora quando lo guardava lui diventava rosso fino alla cima dei capelli. Lei se ne accorgeva e rideva.
«Di Franco, questo è il testo. Hai 45 minuti per finirlo. Dai al lavoro. Concentrati». La Prof. era davanti a lui con il compito in mano e, ridendo, glielo consegnò. Con un sospiro, Raffaele lesse il testo e si accorse che era facilissimo, molto simile a un compito precedente. Si parlava sempre di un rubinetto rotto, che perdeva tot gocce al minuto e si voleva sapere in quanto tempo la vasca sarebbe stata piena. Che barba pensò lui. Ma questi professori avevano tutti i rubinetti rotti? Era dalle elementari che svolgeva sempre questo tipo di problema, ora, chiaramente più complesso. Prese la penna ma prima si girò ancora verso Lucia che, nel frattempo, si era tolta il gommino che tratteneva i capelli per rifare la coda. I suoi capelli sembravano avere tutte le sfumature dell’oro. Così almeno sembrava a lui. Rimase con la bocca aperta e la penna a mezz’aria finché gli arrivò una seconda gomitata: «Oh, ti sbrighi? ». Come in trance, Raffaele prese il cellulare dalla tasca e, senza pensare, inviò un WhatsApp a Lucia.
«Ciao. Oggi vado da mio nonno che abita nella tua via. Facciamo la strada insieme?».
La risposta arrivò in un lampo con un emoticon che riportava il segno di OK e un sorriso di Lucia che si girò per un secondo nella sua direzione.
Con un’espressione da ebete, riprese a esaminare il testo del compito non accorgendosi che La Prof era di fronte a lui con la mano tesa.
«Bene, Raffaele, non ti ci facevo. Usare il telefonino per avere la soluzione del problema. Avanti, dammelo».
«No, guardi, è un equivoco, ho solo mandato un messaggino a mio nonno per avvertirlo che oggi, dopo la scuola, vado da lui», ribatté sempre più rosso.
«Va bene, allora vediamolo», reagì l’insegnante.
«No», fu la risposta quasi gridata di Raffaele e strinse il cellulare nel pugno.
Seguì una nota sul diario, la convocazione del genitore e chiaramente l’annullamento del compito. La docente era furiosa quanto Raffaele era pieno di una gioia che lo riempiva tutto. Guardava l’insegnante con uno sguardo commiserevole e sembrava voler dire che quel giorno niente lo toccava e niente poteva spezzare quel sentimento che aveva dentro di lui e che lo faceva sentire più grande e maturo. Si sentiva come un adulto.

Alla fine delle lezioni Raffaele accompagnò Lucia a casa e poi, senza farsi vedere da lei, fece dietrofront e andò a casa sua dove, attraverso il registro elettronico, era già arrivata una comunicazione nella quale si invitavano i genitori a un colloquio urgente con il preside e l’insegnante di matematica. Seguirono urla, porte sbattute e la frase di Raffaele ripetuta come un mantra: «Nessuno mi capisce, nessuno mi vuol capire”, ma all’ingiunzione di suo padre di dargli il telefonino non poté rifiutarsi e, nella fretta, non cancellò il messaggio di Lucia.
Il padre lesse più volte il messaggio, in silenzio e ogni volta lo guardava. Provava pena per quel figliolo che stava crescendo non solo in altezza. Gli prese la testa fra le mani e fissò ancora i suoi occhi in quelli del figlio. Colse la prima ombra di turbamento e l’abbandono dell’infanzia.
«Va bene. Questo, il telefono, lo tengo io visto che devo andare dal preside, ma la prossima volta non t’inventare un nonno dove non c’è», disse suo padre e, alle rimostranze di Raffaele, alzò una mano per dire basta.

Raffaele avrebbe ricordato sempre quell’episodio con emozione, anche a distanza di dieci anni. In un istante era passato in un’altra età.

Luciana Russo

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