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Nel casolare di campagna

Me lo ricordo bene quel nove novembre del 1942, il giorno che sono nato. Insieme alla pioggia cadevano bombe. La mamma supplicava il babbo di scendere nel rifugio: «Gigi, dammi retta, prendi Roberto (mio fratello di due anni) e scappa giù nel rifugio. Io resto qui con questa creatura (io)». Ma il babbo non l’ascoltava: «Se proprio si deve morire, è meglio che si muoia tutti insieme» a lui sono sempre piaciute le frasi a effetto.

Quel nove novembre nessuna bomba colpì la nostra casa. Dopo un’ora le sirene dettero il segnale di cessato pericolo e cominciarono ad arrivare i parenti. Ma quanti parenti avevamo? Tra nonni, nonne, zii, zie, qualche cugino e alcuni vicini di casa che si erano imbucati, tutta quella gente quasi non ce la faceva a entrare nella nostra camera, che pure era piuttosto grande.

La nostra vita era nelle mani di Dio o del caso, non avevo ancora deciso.

Passata la novità del primo giorno, i parenti non si occuparono più di me. Io crescevo piano, perché non c’era molto da mangiare, ma crescevo. Non era certo una gran vita la mia, ero stato meglio prima di nascere.

Quella era una guerra dagli strani sviluppi. Nessuno mi diceva niente, ma avevo lo stesso realizzato che gli amici di prima erano diventati nemici e che i vecchi nemici avevano preso il nome di alleati. La conseguenza fu la cessazione dei bombardamenti aerei e l’inizio di quelli terrestri dalle colline vicine. Il nostro quartiere si trovava proprio sulla linea del fronte e le cannonate colpivano le nostre case. Anche la mia terrazza fu distrutta da un colpo di mortaio.
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: la mia famiglia, insieme a nonni, zii e cugini, fece armi e bagagli e si rifugiò presso una grande casa colonica nei dintorni della città. Era la casa di certi parenti alla lontana che ci ospitarono in cambio di non so che cosa, perché non avevamo niente.
Eravamo degli sfollati, dormivamo in letti di fortuna, avevamo poco da mangiare, ma in quella casa di campagna passai giorni bellissimi, perché mi innamorai perdutamente di mia cugina Laura, io non ancora due anni, lei un anno e mezzo. Era una vera bellezza: alta, occhi e capelli neri, labbra rosse e un dentino scheggiato davanti.
«Non è importante» diceva mia zia Valeria, la mamma di Laura, «è solo un dentino di latte».
Io speravo che fosse scheggiato anche quello sotto, il dente vero. Stavo sempre appiccicato a Laura, giocavo con lei, con le sue bambole di pezza, l’abbracciavo, la coccolavo, la consolavo quando la vedevo triste. Mi sentivo addosso una voglia strana di accarezzarla anche in quelle parti del corpo che erano sempre coperte dai vestiti. Un giorno cominciai a spogliarla davanti a tutti.
Madonna, come si incavolò la zia! Non mi lasciò più giocare con Laura e io diventai così triste che cominciai a pensare al suicidio.
Il tavolo della stanza principale era così alto che, se fossi riuscito a montarci sopra, sarebbe stato lo strumento adatto allo scopo. Dopo diversi tentativi, accostando una sedia, ce la feci a salirci sopra; quindi, chiusi gli occhi e mi lasciai cadere. Battei la testa con violenza sul pavimento. Nell’attimo che precedette la perdita della coscienza, pensai di aver centrato l’obbiettivo.

Quando arrivammo all’ospedale su un carretto tirato da un cavallo, mi ero un po’ ripreso. La mamma era disperata, gridava il mio nome, mi accarezzava la testa, mi scuoteva per farmi riprendere. Non avrei mai creduto che tenesse così tanto a me.
Davanti al dottore, continuavo a fare lo svenuto. Lui mi distese sul lettino mentre la mamma cercava di spiegare, di giustificarsi: «È caduto dal tavolo, ma mi creda: si è buttato apposta».
Il dottore non le credeva, glielo leggevo in faccia. Per lui la colpa era della mamma che non era stata attenta. Sospettava addirittura che mi ci avesse buttato lei giù dal tavolo. Cose che succedevano in quei tempi così difficili.
«Dottore, pensi quello che vuole, ma lo salvi», anche lei ogni tanto andava sul patetico. A me tutto quel sentimentalismo dava il voltastomaco, ma mi lasciai travolgere. Pensai a una strategia per salvare la mamma dal sospetto del dottore e mi buttai di sotto anche dal lettino, facendo però bene attenzione a non battere la testa, perché prima avevo sentito troppo male. Dopo che ci avevo provato, all’idea del suicidio non ci pensavo più.
«Questo bambino è un mostro», esclamò il dottore incazzatissimo, «io, signora, glielo salvo, ma vedrà quanti problemi le causerà nella vita. Ora che ha battuto la testa non sarà mai più una persona normale».

La guerra dalle nostre parti era passata, come dicevano i grandi. Non c’era più nessun motivo per restare in quel casolare di campagna e una mattina, dopo aver caricato i nostri poveri bagagli sul solito carretto, tornammo tutti nelle nostre case di città.
I bombardamenti aerei e terrestri erano finalmente cessati. Le sirene non davano più l’allarme, ma chiamavano gli operai al lavoro nelle fabbriche. Il babbo era rientrato nell’officina meccanica dove aveva lavorato prima della guerra, mentre la mamma lavorava in casa, dove cuciva vestaglie per una ditta con la sua Singer a pedale di cui era molto orgogliosa.
Anche mia zia Valeria faceva la sarta. Lei però il lavoro ce l’aveva fuori ed era costretta a lasciare Laura a casa della mia mamma che, guarda caso, era anche casa mia.

E chi ci pensò più al suicidio.

La foto è di proprietà dell’autore

Paolo Dapporto


Pubblicato inBlogPronti, attenti, blog! 2025

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