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Suggestioni

C’era la necessità di capire perché nell’ultimo mese, tutte le mattine, quando scendevo dal letto mi facevano terribilmente male i piedi. Dieci minuti, solo per dieci minuti, una scossa elettrica mi bloccava le gambe e poi passava, come lo squillo di un campanello.
I problemi di salute non rientravano nella lista delle priorità della mia vita, semplicemente la affiancavano, come mangiare, dormire e andare in bagno.
I dolori alle ossa c’erano, poi passavano, poi tornavano. Erano molto creativi, sempre diversi e sempre in posti diversi.
Il dolore ai piedi mi costrinse a riflessioni di tipo pratico: se fosse aumentato, mi avrebbe costretto a stare ferma. Impossibile: ferma non ci potevo stare. 
L’ipotesi mi mise in uno stato di ansia che dovevo annientare subito. L’ansia non me la potevo permettere perché l’ansia deconcentra.
Dovevo prendere sul serio quel dolore? L’idea di un appuntamento con un medico, mi provocava un fastidioso disagio psicologico: significava spostare gli impegni già presi.
Mentre componevo il numero del medico, ebbi la sensazione che il disagio fosse più che altro paura.
L’appuntamento mi fu dato a breve. Meno male, pensai, così avrei avuto meno tempo per spaventarmi.

Il giorno della visita, mentre guidavo, alla radio passavano una vecchia canzone che mi distolse dai pensieri ossessivi: lavoro arretrato, appuntamenti mancati, il controllo su tutto, l’inquietudine al solo pensiero di dover delegare qualcosa, le visite ai musei, unico mio, vero, privato amore.
La musica familiare, pose fine al ticchettio – fuori tempo – del mio battito, ma fu il ricordo di un’immagine a procurarmi un piacere, anche fisico.
Mi rivedevo dentro ad un piccolo museo, davanti a un quadro ad acquarello che mi aveva rapito per la delicatezza dei colori, ma principalmente per la profondità della narrazione. Non ci pensavo da tanto tempo e mi sorpresi per un secondo, nello specchietto, a sorridere pensando a come, quel vortice di pennellate mi aveva emozionato… perché lo avevo dimenticato?
Quando scesi dalla macchina, al parcheggio dell’Ospedale, l’agitazione era scomparsa e mi incamminai lentamente. Inusuale per me.
Una voce annoiata annunciò che era il mio turno. Cercavo di aggrapparmi a quella immagine perché placasse il boato che investì la mia testa. Feci i pochi passi, che mi separavano dalla porta dell’ambulatorio, fuori dal mio corpo, in una bolla di tempo dilatato mi vidi di fronte a quel dipinto e da quel dipinto cercavo disperatamente la forza.

Le parole del medico risuonavano lontane, non le ascoltavo. Capii solo che da quel momento tutto sarebbe cambiato, ma io ero già accovacciata all’ombra del maestoso albero, e osservavo un vecchio ponte di pietra, familiare, accogliente, evocativo delle lontane sofferenze che mi facevano sentire meno sola.
Decisi di accettare l’invito di quel Ponte che, come un tempo aveva accolto i passi di chissà quante altre donne che soffrivano, adesso accoglieva me, leggera, libera e ipnotizzata dalla bellezza circostante: osservavo, respiravo, seguivo la strada che mi indicavano i cipressi. In lontananza vedevo casa mia. L’istinto mi avrebbe portato lì, ma io dovevo rimanere distante. 
Intrappolata nella storia che il dipinto mi stava narrando imparavo come l’arte attraverso percorsi, a volte invisibili, incontra le nostre vite e ci aiuta a dar loro un senso nuovo.

L’immagine è ricavata da un acquerello del Museo di Fabriano.

Sabrina Carletti


Pubblicato inBlogPronti, attenti, blog! 2025

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